domenica 25 ottobre 2015

Inviti superflui

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

Dino Buzzati

L'uomo che volle guarire

Intorno al grande lebbrosario sulla collina, a un paio di chilometri dalla città, correva un alto muraglione e in cima al muraglione le sentinelle camminavano su e giù. Tra queste guardie ce n'erano di altezzose e intrattabili, altre invece avevano pietà. Perciò al crepuscolo i lebbrosi si raccoglievano ai piedi del bastione e interrogavano i soldati più alla mano. "Gaspare" per esempio dicevano "che cosa
vedi questa sera? C'è qualcuno sulla strada? Una carrozza, dici? E com'è questa carrozza? E la reggia è illuminata? Hanno acceso le torce sulla torre? Che sia tornato il principe?" Continuavano per ore, non erano mai stanchi e, benché il regolamento lo vietasse, le sentinelle di buon cuore rispondevano, spesso inventando cose che non c'erano, passaggio di viandanti, luminarie, incendi, eruzioni perfino del vulcano Ermac, poiché sapevano che qualsiasi novità era una deliziosa distrazione per quegli uomini condannati a non uscire mai di là. 

Anche i malati gravi, i moribondi partecipavano al convegno portati in barella dai lebbrosi ancora validi.
Soltanto uno non veniva, un giovane entrato nel lazzaretto da due mesi. Era un nobile, un cavaliere, uomo già stato bellissimo, a quanto si poteva indovinare perché la lebbra lo aveva attaccato con una violenza rara, in poco tempo deturpandogli la faccia. Si chiamava Mseridon.
" Perché non vieni? " gli chiedevano passando dinanzi alla sua capanna "perché non vieni anche tu a sentire le notizie? Ci devono essere questa sera i fuochi artificiali e Gaspare ha promesso che ce li descriverà. Sarà bellissimo vedrai " "Amici" lui rispondeva dolcemente, affacciandosi alla soglia e si copriva la faccia leonina con un pannolino bianco
"Capisco che per voi le notizie che vi dà la sentinella siano una consolazione. Questo è l'unico legame che vi
resta col mondo esterno, con la città dei vivi. è vero o no?"
" Sì certo, è vero."
"Questo vuol dire che vi siete già rassegnati a non uscire mai di qui. Mentre io... "

"Tu che cosa?"
"Mentre io invece guarirò, io non mi sono rassegnato, io voglio, capite, voglio tornare come prima."
Tra gli altri, dinanzi alla capanna di Mseridon, passava il saggio e vecchio Giacomo, patriarca della comunità. Aveva almeno centodieci anni ed era quasi un secolo che la lebbra lo smangiava. Non aveva più membra di sorta, non si distinguevano più la testa né le braccia né le gambe.
Il corpo si era trasformato in una specie di asta del diametro di tre quattro centimetri che si teneva chissà come in equilibrio, con in cima un ciuffo di capelli bianchi e assomigliava, in grande, a quegli scacciamosche che adoperano i nobili abissini. Come ci vedesse, parlasse, si nutrisse era un enigma perché la faccia era distrutta né si vedevano aperture nella crosta bianca che lo rivestiva, simile
alla corteccia di betulla. Ma questi sono i misteri dei lebbrosi.
In quanto al camminare, scomparse tutte le articolazioni, se la cavava saltellando sull'unico piede, tondo anch'esso come il puntale di un bastone. Anziché macabro l'aspetto complessivo era grazioso. Praticamente, un uomo trasformato in vegetale. E siccome era molto buono e intelligente, tutti gli usavano riguardo.

All'udire le parole di Mseridon, il vecchio Giacomo si fermò e gli disse: "Mseridon, povero ragazzo, io sono qui da quasi cento anni e di quanti io trovai o entrarono dipoi nessuno è mai uscito. Tale è la nostra malattia. Ma anche qui, vedrai, possiamo vivere. C'è chi lavora, c'è chi ama, c'è chi scrive poesie, c'è il sarto, c'è il barbiere. Si può anche essere felici, per lo meno non si è molto più infelici degli uomini di fuori. Tutto sta nel rassegnarci. Ma guai, Mseridon, se l'animo si ribella e non si adatta e pretende una guarigione assurda, allora ci si riempie il cuore di veleno". 
E così dicendo il vecchio scuoteva il suo bel pennacchio bianco.
"Ma io" ribatté Mseridon "io ho bisogno di guarire, io sono ricco, se tu salissi sulle mura potresti vedere il mio palazzo, ha due cupole d'argento che scintillano. Laggiù ci sono i miei cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere schiave adolescenti mi aspettano che torni. Capisci, saggio bastoncello, io ho bisogno di guarire."
"Se per guarire bastasse averne bisogno, la cosa riuscirebbe molto semplice.." fece Giacomo con una bonaria risatina. "Chi più chi meno, tutti sarebbero guariti."
"Ma io" si ostinò il giovane "io per guarire ho il mezzo, che gli altri non conoscono."
"Oh lo immagino" fece Giacomo "ci sono sempre dei bricconi che ai nuovi venuti offrono a caro prezzo unguenti segreti e prodigiosi per guarire. Anch'io ci cascai quando ero piccolo."
"No, non uso unguenti io, io adopero semplicemente la preghiera."
"Tu preghi Dio che ti guarisca? E sei perciò convinto di guarire? Ma tutti noi preghiamo, cosa credi? non passa sera che non si rivolga il pensiero a Dio. Eppure chi... "
"Tutti pregate, è vero, ma non come me. Voi alla sera andate ad ascoltare il notiziario della sentinella, io invece prego. Voi lavorate, studiate, giocate a carte, voi vivete come vivono pressapoco gli altri uomini, io invece prego, tranne il tempo strettamente indispensabile per mangiare, bere e dormire, io prego senza soluzione di continuità e del resto anche mentre mangio io prego e perfino mentre dormo; tanta è infatti la mia volontà che da qualche tempo sogno di essere inginocchiato e di pregare. La preghiera che fate voi è uno scherzo. L'autentica preghiera è una fatica immensa, io alla sera arrivo estenuato dallo sforzo. E come è duro all'alba, appena sveglio, riprendere subito a pregare, la morte talora mi sembra preferibile. Ma poi mi faccio forza e mi inginocchio. Tu, Giacomo, che sei vecchio e saggio, dovresti saperle queste cose."
A questo punto Giacomo cominciò a dondolare come se stentasse a mantenere l'equilibrio e calde lacrime rigarono la sua scorza cinerina. "E' vero, è vero" singhiozzava il vecchio "anch'io quando avevo la tua età... anch'io mi gettai nella preghiera e tenni duro sette mesi e già le piaghe si chiudevano e la pelle tornava bella liscia... stavo guarendo... Ma a un tratto non ce la feci più e tutta la fatica andò perduta... Io vedi in che stato son ridotto... "
"E allora" disse Mseridon "tu non credi che io... "
"Dio ti assista, non posso dirti altro, che l'Onnipotente 
ti dia forza" mormorò il vecchio, e a piccoli saltelli si avvicinò alle mura, dove la folla era riunita.
Chiuso nella sua capanna, Mseridon continuò a pregare, insensibile ai richiami dei lebbrosi. A denti stretti, col pensiero fisso a Dio, tutto in sudore per lo sforzo, lottava contro il male e a poco a poco le immonde croste si accartocciavano al bordo e poi cadevano, lasciando che la carne sana rinascesse. Intanto la voce si era sparsa e attorno alla capanna stazionavano sempre gruppi di curiosi. Mseridon aveva ormai fama di santo.
Avrebbe vinto o tanto impegno non sarebbe servito a niente? Si erano formati due partiti, pro e contro il gio-
vane ostinato. Finché, dopo quasi due anni di clausura, Mseridon un giorno uscì dalla capanna. Il sole finalmente gli illuminò la faccia, la quale non aveva più segni di lebbra, non assomigliava al muso di un leone, bensì risplendeva di bellezza.

"E' guarito, è guarito!" gridò la gente incerta se mettersi a piangere di gioia o lasciarsi divorare dall'invidia.
Era guarito infatti Mseridon ma per poter lasciare il lebbrosario doveva avere un documento.

Andò dal medico fiscale che faceva ogni settimana l'ispezione, si spogliò e si fece visitare.
"Giovanotto, puoi dirti fortunato" fu il responso "devo ammettere che sei quasi guarito."
"Quasi? Perché?" chiese il giovane con amara delusione.

"Guarda, guarda qui la brutta crosticina" fece il medico additando con una bacchetta, per non toccarlo, un
puntino colore della cenere non più grande di un pidocchio, sul mignolo di un piede "bisogna che tu elimini anche questa se vuoi che io ti lasci libero."

Mseridon tornò alla sua capanna e mai seppe neppur lui come fece a superare lo sconforto. Credeva di essere ormai salvo, aveva allentato tutte le energie, già si apprestava al premio: e doveva invece riprendere il calvario.
"Coraggio" lo incitava il vecchio Giacomo "ancora un piccolo sforzo, il più l'hai fatto, sarebbe pazzesco rinunciare proprio adesso."
Era una rugosità microscopica sul mignolo ma sembrava che non volesse arrendersi. Un mese e poi due mesi di ininterrotta potentissima preghiera. Niente. Un terzo, un quarto, un quinto mese.
Niente. Mseridon stava per mollare quando una notte, passandosi, come faceva ormai meccanicamente, una mano sul piede malato, non incontrò più la crosticina.
I lebbrosi lo portarono in trionfo. Era ormai libero. Dinanzi al corpo di guardia ci furono i commiati. Poi soltanto il vecchio Giacomo, saltellando, 1o accompagnò alla porta esterna. Furono controllati i documenti, la chiave cigolò girando nella serratura, la sentinella spalancò la porta.
Apparve il mondo nel sole del primo mattino, così fresco e pieno di speranze. I boschi, le praterie verdi, gli uccellini che cantavano, e in fondo biancheggiava la città con le sue torri candide, le terrazze orlate di giardini, gli stendardi fluttuanti, gli altissimi aquiloni a forma di draghi e
di serpenti; e sotto, che non si vedevano, miriadi di vite e di occasioni, le donne, le voluttà, i lussi, le avventure, la corte, gli intrighi, la potenza, le armi, il regno dell'uomo!
Il vecchio Giacomo osservava la faccia del giovane, curioso di vederla illuminata dalla gioia. Sorrise infatti Mseridon al panorama della libertà. Ma fu un istante. Subito il giovane cavaliere impallidì,
"Che hai? " gli chiese il vecchio supponendo che l'emozione gli avesse tolto il fiato. E la sentinella: "Su, su svelto, giovanotto, passa fuori che io devo subito richiudere, non ti farai pregare, spero!"
Invece Mseridon fece un passo indietro e si coprì gli occhi con le mani: "Oh è terribile!"
"Che hai?" ripeté Giacomo. "Stai male?"
"Non posso!" disse Mseridon. Dinanzi a lui, di colpo, la visione era cambiata. E al posto delle torri e delle cupole, giaceva adesso un sordido groviglio di catapecchie polverose, grondanti di sterco e di miseria, e invece degli stendardi, sopra i tetti, nugoli caliginosi di tafani come un infetto polverone.
Il vecchio domandò: "Che cosa vedi, Mseridon? Dimmi: vedi marcio e luridume dove prima tutto era glorioso? Al posto dei palazzi vedi ignobili capanne? è così, Mseridon?"
"Sì, sì, tutto è diventato orribile. Perché? Cosa è successo?"
"Io lo sapevo" fece il patriarca "lo sapevo ma non osavo dirtelo. Questo è il destino di noi uomini, tutto si paga a caro prezzo. Non ti sei mai chiesto chi ti dava la forza di pregare? Le tue preghiere erano di quelle a cui non resiste neanche la collera del cielo, Tu hai vinto, sei guarito. E adesso paghi."
"Pago? E perché?"

"Perché era la grazia che ti sosteneva. E la grazia dell'Onnipotente non risparmia. Sei guarito ma non sei più lo stesso di una volta.
Di giorno in giorno, mentre la grazia lavorava in te, senza saperlo tu perdevi il gusto della vita. Tu guarivi, ma le cose per cui 
smaniavi di guarire a poco a poco si staccavano, diventavano fantasmi, cimbe natanti sopra il mar degli anni! Io lo sapevo. Credevi di essere tu a vincere, e invece era Dio che ti vinceva. Così hai perso per sempre i desideri. Sei ricco ma adesso i soldi non ti importano, sei giovane ma non timportano le donne.
La città ti sembra un letamaio. Eri un gentiluomo, sei un santo, capisci come il conto torna? Sei nostro, finalmente, Mseridon! L'unica felicità che ti rimane è qui tra noi, lebbrosi, a consolarci... Su, sentinella, chiudi pure la porta, noi rientriarno." La sentinella tirò a sé il battente. 

Dino Buzzati

Le precauzioni inutili

Ora che lui è partito, e non si farà vivo più, scomparso, cancellato via dal quadrante della vita esattamente come se fosse morto, a lei, Irene, non resta che armarsi di tutto il coraggio che una donna può chiedere a Dio e sradicare tutti i rami per cui quello sfortunato amore si è attaccato alle sue viscere. E' sempre stata una ragazza forte, Irene, questa volta non sarà da meno.
E' fatto! Meno tremendo di quanto lei pensasse; e meno lungo. Non sono passati neanche quattro mesi, ed eccola completamente liberata. Un poco più magra, più pallida, più diafana, però leggera, col languore soave della convalescenza dentro cui già palpitano vaghe illusioni nuove. Oh è stata brava, eroica è stata, ha saputo essere crudele con se stessa, ha respinto con accanimento tutte le lusinghe dei ricordi, ai quali sarebbe stato pur dolce abbandonarsi. Distruggere tutto ciò che di lui restava nelle sue mani, fosse pure uno spillo, bruciare le lettere e le foto, buttar via i vestiti indossati quando c'era lui, sui quali forse gli sguardi suoi avevano lasciato una traccia impalpabile, sbarazzarsi dei libri che anch'egli aveva letto e la comune conoscenza stabiliva una complicità segreta, vendere il cane che ormai aveva imparato a riconoscerlo e gli correva incontro al cancello del giardino, abbandonare le amicizie che erano appartenute a entrambi, cambiare perfino casa perché a quel camino lui una sera si era appoggiato con un gomito, perché un mattino quella porta si era aperta, e dietro era apparso lui, perché il campanello della porta continuava a dare lo stesso suono di quando lui veniva, e in ogni stanza le sembrava così di riconoscere una misteriosa impronta. Ancora: abituarsi a pensare ad altre cose, gettarsi in un lavoro massacrante per cui di sera, quando il pericolo si ridestava più insidioso, un sonno di pietra la atterrasse, conoscere nuove persone, frequentare nuovi ambienti, cambiare anche il colore dei capelli.
Tutto questo lei è riuscita a fare, con impegno disperato, non lasciando sguarnito un angolo, una fessura, da cui il ricordo potesse farsi strada. L'ha fatto. Ed è stata guarita. Ora è mattino, con un bel vestito azzurro che la sarta le ha appena mandato, Irene sta per uscire di casa. Fuori c'è il sole. Lei si sente sana, giovane, tutta lavata dentro, fresca come quando aveva sedici anni. Felice addirittura? Quasi.
Ma da una casa vicina viene una breve onda di suono. Qualcuno ha la radio accesa o fa andare il grammofono, e una finestra è stata aperta. Aperta e poi subito chiusa.
E' bastato. Sei o sette note, non di più, la sigla di un vecchio motivo, la sua canzone. Su, coraggiosa Irene, non perderti per così poco, corri al lavoro, non fermarti, ridi! Ma un vuoto orrendo le si è già formato entro nel petto, ha già scavato una voragine. Per mesi e mesi l'amore, questa strana condanna, aveva finto di dormire, lasciando che Irene s'illudesse. Ora una inezia è stata sufficiente a scatenarlo.
Fuori passano le macchine, la gente vive, nessuno sa di una donna che, abbandonata sul pavimento a ridosso della porta di casa come una bambina castigata, sciupandosi il bel vestito nuovo, perdutamente piange. Lui è lontano, non tornerà mai più, e tutto è stato inutile.

Dino Buzzati