venerdì 14 dicembre 2012

Ascoltate!


Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che qualcuno vuole che esse siano?
Vuol dire che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?
E tutto trafelato,
fra le burrasche di polvere meridiana,
si precipita verso Dio,
teme d'essere in ritardo,
piange.
Gli bacia la mano nodosa,
supplica
che ci sia assolutamente una stella,
giura
che non può sopportare questa tortura senza stelle!
E poi cammina inquieto,
fingendosi calmo.
Dice ad un altro:
"Ora va meglio, è vero?
Non hai più paura?
Sì!?"
Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che è indispensabile
che ogni sera
al di sopra dei tetti
risplenda almeno una stella?

Vladimir Majakovskij
 
dal libro "Poesie. Testo russo a fronte" di Vladimir Majakovskij
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-90352?f=a:2992>

lunedì 26 novembre 2012

Il deserto dei tartari

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza.
Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa, così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.
Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.
Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto.
Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa in tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.
Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello. Lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.
Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all'orizzonte.
Dietro quel fiume - dirà la gente - ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.
Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.
Giovanni Drogo adesso dorme nell'interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno nè una casa nè un uomo nè un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo.

da Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

AutoreDino Buzzati
1ª ed. originale1940
Genereromanzo
Lingua originaleitaliano
 

lunedì 12 novembre 2012

Delle tre metamorfosi

Tre metamorfosi dello spirito vi dico: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e infine il leone fanciullo.
Ci sono molte cose difficili per lo spirito, per lo spirito forte e paziente che abbia in sè amore e reverenza: al difficile e al difficile del difficile aspira la sua forza.
Che cos'è il difficile? chiede lo spirito paziente, s'inginocchia come il cammello, e vuole un carico pesante.
Che cos'è il difficile del difficile, voi eroi? chiede lo spirito paziente, che io possa prenderlo su di me e mi rallegri della mia forza.
Non è questo: umiliarsi, per far male al proprio orgoglio? Far brillare la propria stoltezza, per schernire la propria saggezza?
Oppure è questo: separarci dalla nostra causa quando essa celebra la sua vittoria?
Oppure è questo: nutrirsi di ghiande ed erbe della conoscenza ed essere affamati nell'anima per amore della verità?
Oppure è questo: essere ammalato e rimandare i consolatori e stringere amicizia con le colombe che non odono ciò che tu vuoi?
Oppure è questo: entrare nell'acqua sporca, se è l'acqua della verità, e non respingere da sè rane fredde e rospi caldi?
Oppure è questo: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano la mano allo spettro quando esso vuole farci paura?
Tutte queste cose difficili tra le difficili prende lo spirito paziente su di sè: come il cammello che, caricato, si avvia nel suo deserto.
Ma nel deserto più solitario ha luogo la seconda trasformazione: lo spirito diventa qui un leone, vuole impadronirsi della libertà ed essere padrone del proprio deserto.
Qui esso cerca il suo ultimo padrone: vuole diventargli nemico e nemico del suo ultimo dio, la vittoria vuole contendere al grande drago.
Qual'è il grande drago che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? "Tu devi" si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice "io voglio".
"Tu devi" è coricato sul suo cammino, scintillante d'oro. Una fiera con le squame, e su ogni squama splende dorato "Tu devi".
Valori millenari splendono su queste squame e così parla il più potente di tutti i draghi: Ogni valore delle cose risplende su di me.Tutti i valori furono già creati e ogni valore creato - sono io. In verità, non deve esistere più nessun "io voglio". Così parla il drago.
Fratelli, che bisogno c'è del leone nello spirito? Non basta l'animale da carico, che rinuncia ed è timorato?
Creare nuovi valori; nemmeno il leone ne è capace. Ma crearsi libertà per nuove creazioni, di questo è capace la forza del leone.
Crearsi la libertà,crearsi un sacro no anche di fronte al dovere: per questo fratelli c'è bisogno del leone.
Prendersi il diritto a nuovi valori è il prendere più terribile che vi sia per uno spirito paziente e timorato. In verità è per lui un predare e un atto da animale da preda.
Come la cosa più santa egli amava un tempo il "tu devi": ora è costretto a scorgere illusione e arbitrio anche nella cosa più santa, per poter predare libertà a prezzo del suo amore: per questa rapina c'è bisogno del leone.
Ma dite fratelli, che cosa può il fanciullo, che non potè nemmeno il leone? Perchè il leone predatore deve ancora diventare un fanciullo?
Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì.
Sì, al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire di sì: lo spirito vuole la propria volontà, chi è perduto al mondo conquista il proprio mondo.
Tre metamorfosi dello spirito vi dissi: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e per ultimo il leone fanciullo.
Così parlò Zarathustra

AutoreFriedrich Nietzsche
1ª ed. originale1883, 1885
Generesaggio
Sottogenerefilosofico
Lingua originaletedesco
ProtagonistiZarathustra

venerdì 19 ottobre 2012

Anima e iPad (E se l'automa fosse lo specchio dell'anima?)

Che cosa c'entra l'anima con l'iPad? In apparenza niente.
La prima è quella fitta di rimorso che ci avvisa che siamo vivi e coscienti, il secondo è l'assoluto tecnologico del momento. Tuttavia, questa strana coppia ha una affinità profonda, perchè la tecnica non è aberrazione, ma rivelazione e, come in un corteo, porta alla ribalta una multiforme di cose antichissime.
Quali? Anzitutto la scrittura. Tanto l'anima quanto l'iPad hanno memoria da vendere e sono dei blocchi su cui si legge, si scrive e si archivia. Si, perchè non solo il "pad" di iPad ci ricorda il blocco di carta gialla e rigata reso familiare dai legal thriller, ma la più antica immagine dell'anima, da Platone a Freud, è stata quella della tavoletta di cera, gialla anche lei, la tabula su cui si scrive e si cancella. Questa scrittura, dentro e fuori della mente, è l'origine della coscienza e del mondo sociale.
Perchè la scrittura è insieme la base della realtà sociale (è impossibile pensare a una società senza una qualche forma di memoria, dal rito al computer passando per l'archivio e il portafogli) e la base della nostra coscienza e del nostro pensiero, il cui spettro peggiore è proprio l'Alzheimer, la perdita della memoria vissuta come perdita del pensiero. Ecco perchè la grande svolta tecnologica che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni ha riguardato proprio la scrittura, e il suo emblema è oggi l'iPad.
Anima e iPad sono dunque gemelli. E l'iPad, che quando è spento, con il suo schermo lucido, può servire come specchio per pettinarsi o rifarsi il trucco, quando è acceso, con la sua memoria attivata, diviene letteralmente lo specchio dell'anima.

Prefazione da Anima e iPad
Maurizio Ferraris
Ugo Guanda Editore 2011

giovedì 11 ottobre 2012

Livro do desassosego por Bernardo Soares 4

[...] Se questa vita, oltre a se stessa, ci offre qualcosa per cui possiamo ringraziare gli Dei, questa cosa è il dono di ignorarci: di ignorare di noi stessi e di ignorarci a vicenda. L'anima umana è un abisso oscuro e vischioso, un pozzo fuori uso alla superficie del mondo. Nessuno amerebbe se stesso se si conoscesse davvero; e pertanto non esistendo la vanità, che è la linfa della vita spirituale, la nostra anima morirebbe di anemia. Nessuno conosce un altro, ed è meglio che non lo conosca, e se lo conoscesse conoscerebbe in lui, anche se gli fosse madre, moglie o figlio, il suo profondo metafisico nemico.
Ci intendiamo perchè ci ignoriamo. Che ne sarebbe di tanti coniugi felici se potessero leggersi nell'animo, se potessero comprendersi, come sostengono i romantici che ignorano il pericolo (anche se un pericolo futile) di quello che dicono. Tutte le persone sposate sono mal sposate, poichè ognuno conserva con se stesso, nei nascondigli dove l'anima appartiene al Diavolo, l'immagine impalpabile dell'uomo desiderato che non è il suo coniuge, la figura volubile della donna sublime che non è la sua sposa. I più felici ignorano in loro stessi queste disposizioni frustrate; i meno felici non le ignorano, ma non le conoscono, e soltanto qualche slancio insignificante, qualche asprezza nel tatto, evoca nella superficie casuale dei gesti e delle parole, il Demonio occulto, l'Eva antica, il Cavaliere e la Silfide.
La vita che si vive è un malinteso fluido, una allegra media fra la grandezza che non c'è e la felicità che non può esserci. Siamo contenti perchè, perfino nel pensare e nel sentire, siamo capaci di non credere all'esistenza dell'anima. Nel ballo mascherato che viviamo ci basta il gradimento del vestito che nel ballo è tutto. Siamo servi delle luci e dei colori, giriamo nella danza come nella verità e non c'è per noi (se non quando balliamo) conoscenza del grande freddo alto della notte esterna, del corpo mortale sotto gli stracci che gli sopravvivono, di tutto quanto, da soli, crediamo essere essenzialmente noi stessi e che invece non è altro che la parodia intima della verità di ciò che crediamo sia.
Tutto quanto facciamo o diciamo, tutto quanto pensiamo o sentiamo, porta la stessa maschera e lo stesso dominò. Per quanto ci spogliamo di ciò che abbiamo indossato, non raggiungiamo mai la nudità, perchè la nudità è un fenomeno dell'anima, e non un togliersi il vestito. Così, vestiti di corpo e di anima, con i nostri multipli indumenti attaccati a noi come le penne degli uccelli, viviamo felici o infelici, oppure senza sapere neanche ciò che siamo, il breve spazio che ci danno gli dèi per i divertimenti, come bambini con gli occhi adulti che giocano seriamente a giochi sacri.
Qualcuno di noi, libero o maledetto, vede all'improvviso - ma anche lui rare volte - che tutto quanto siamo è ciò che non siamo, che ci sbagliamo su quanto è certo e non abbiamo ragione su quanto ritenimo giusto. E costui, che in un breve momento vede l'universo spogliato, parla una filosofia o canta una religione; e coloro che credono in quella filosofia cominciano ad adoperarla come veste che non vedono; e coloro che credono nella religione cominciano a indossarla come maschera di cui si dimenticano.
E sempre, disconoscendo noi stessi e gli altri, e proprio per questo intendendoci allegramente, passiamo nelle volute del ballo o nelle chiaccherate dell'ozio umano, futili, seri, al suono della grande orchestra degli astri, sotto gli occhi sdegnosi ed estranei degli organizzatori dello spettacolo.
Solo loro sanno che noi siamo prede dell'illusione che hanno creato per noi. Ma quale sia la ragione di questa illusione, e perchè esista proprio questa, o qualsiasi illusione, o perchè loro, anch'essi illusi, ci abbiano dato l'illusione che ci hanno dato - questo sicuramente loro stessi non lo sanno. [...]

da Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa
Titolo originale Livro do desassosego por Bernardo Soares
traduzione dal portoghese di Maria Josè de Lancastre e Antonio Tabucchi

domenica 16 settembre 2012

Livro do desassosego por Bernardo Soares 3




Un bel giorno che ignoro mi sono trovato a questo mondo e fino a quel giorno ero vissuto senza accorgermene, evidentemente da quando naqui. Quando ho chiesto dov'ero tutti mi hanno ingannato e tutti si contraddicevano. Quando ho chiesto di indicarmi quello che dovevo fare, tutti mi hanno parlato falsamente e ognuno mi ha detto una cosa diversa. Quando mi sono fermato per strada perchè non sapevo dove andare, tutti si sono stupiti che io non proseguissi verso un dove che nessuno sapeva cosa fosse, o che io non ritornassi indietro: io, che sveglio all'incrocio, non sapevo da dov'ero venuto. Mi sono trovato sul palco senza conoscere la parte che gli altri recitavano senza indugio, anche se non la sapevano a loro volta. Mi sono accorto di essere vestito da paggio, e non mi avevano dato una regina, incolpandomi perchè non l'avevo. Mi sono accorto di tenere fra le mani un messaggio da consegnare, e quando ho detto che il foglio era bianco hanno riso di me. E ancora non so se hanno riso perchè tutti i fogli sono bianchi o perchè tutti i messaggi sono presumibili.
Alla fine mi sono seduto sulla pietra di un crocicchio come al focolare che non ebbi. E ho cominciato, fra me e me, a costruire barche di carta con le bugie che mi erano state date. Nessuno ha voluto credere in me, neppure come a un bugiardo, e non avevo uno specchio d'acqua nel quale provare la mia verità.
Parole oziose, perdute, metafore sciolte che una vaga angoscia incatena alle ombre. Vestigia di ore migliori, vissute non so dove, in viali. Lampada spenta il cui oro brilla nel buio per il ricordo della luce spenta...Parole confidate non al vento ma alla terra, lasciate scivolare dalle dita senza presa, come foglie secche cadute da un albero invisibilmente infinito...Nostalgia delle fontane delle ville altrui...Tenerezza di ciò che non accadde mai...

da Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa
Titolo originale Livro do desassosego por Bernardo Soares
traduzione dal portoghese di Maria Josè de Lancastre e Antonio Tabucchi

lunedì 10 settembre 2012

Livro do desassosego por Bernardo Soares (2)

Dio mi ha creato per essere bambino, e mi ha mantenuto sempre bambino. Perchè mai ha permesso che la Vita mi picchiasse e mi rubasse i giocattoli, e mi lasciasse solo durante la ricreazione, a spiegazzare con mani così deboli il mio grembiule azzurro, sporco di lunghe lacrime?
Se non mi era possibile vivere senza carezze, perchè hanno buttato via la mia tenerezza?
Ah, ogni volta che vedo per la strada un bambino che piange, un bambino esiliato dagli altri, mi fa più male della tristezza del bambino nel dolore sprovveduto del mio cuore esausto. Mi addoloro con tutta la statura della vita sentita, e sono mie le mani che stringono la cocca del grembiule, sono mie le bocche storte dalle lacrime vere, è mia la debolezza, è mia la solitudine, e le risate della vita adulta che passa mi consumano come luci di fiammiferi strusciati sulla rugosa stoffa del mio cuore.
Bernardo Soares



da Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa
Titolo originale Livro do desassosego por Bernardo Soares
traduzione dal portoghese di Maria Josè de Lancastre e Antonio Tabucchi

domenica 19 agosto 2012

Livro do desassosego por Bernardo Soares

All'improvviso, come se un destino chirurgico mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa dalla mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono.
Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un'ebrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l'attore, ma i suoi gesti.
Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perchè ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l'aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perchè ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede.
E' così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l'anima è un'entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo. Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. Si, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
E' stato un attimo ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sè vuol dire vivere. Sapere poco di sè vuol dire pensare. Sapere di sè, all'improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell'anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi.
E' stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato.
E, alla fine, ho sonno, perchè, non so perchè, penso che il senso è dormire.
Bernardo Soares

da Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa
Titolo originale   Livro do desassosego por Bernardo Soares
traduzione dal portoghese di Maria Josè de Lancastre e Antonio Tabucchi

venerdì 30 marzo 2012

L'ultima riga delle favole

C'era una volta - e c'è ancora - un'anima curiosa che vagava per gli spazi infiniti senza trovare un amore dentro il quale tuffarsi. Stava andando alla deriva negli abissi di un mare di noia quando sentì pulsare qualcosa. Una luce, fatta di musica. E rimase inebetita da tanta bellezza. Disse solo una parola e si tuffò dentro di te.
Allora vi siete dimenticati di tutto e avete incominciato a vivere. Tu e la tua anima.
Per sempre felici e contenti, prometteva l'ultima riga delle favole. Invece siete finiti in una gabbia, e le sue sbarre le ha costruite il dolore. Non riuscite più a stare insieme e neppure a staccarvi. Vi trascinate senza meta sotto il peso dell'infelicità e nei vostri pensieri il futuro assomiglia a un deserto dove la nostalgia prevale sul sogno e il rimpianto sulla speranza.
Lettrice o lettore, non ti crucciare. Prima o poi - e più prima che poi - sentirai in sogno una voce di flauto.
"Lei è la tua anima, mica un accidente. Se non te ne innamori, non amerai mai niente."
"Innamorarmi della mia anima! E come si fa?"
"Ti do un indizio. Ricomincia dall'inizio..."
                                                                                            Mihael

Il protagonista di questa storia gettò la rivista sul tavolo.
"Che filastrocca insulsa", disse.
E la ritagliò.

dal capitolo 1    L'ACCOGLIENZA
[...]"Immagina. Sì, immagina che la manifestazione della vita nell'universo sia come la radio della tua automobile: un insieme di frequenze. I cinque sensi ti sintonizzano soltanto su una stazione, per cui sei portato a pensare che le altre non esistano e che la tua sia l'unica possibile. Ogni tanto qualcuno sconfina in quelle accanto, ma capta il segnale in maniera disturbata e lo chiamano matto. Però anche la persona più diffidente riesce a mettersi in collegamento con tutte le stazioni, almeno una volta nella vita."
"Succede quando è completamente invasa dall'amore." aggiunse Stella Maris.

dal capitolo 2    LA VISITA MEDICA
[...]Tomàs ricorse alla definizione più intensa che avesse mai letto. Era di Percy Bysshe Shelley.
L'amore, diceva, è la forza potente che ti attrae verso tutto ciò che temi o speri all'infuori di te, quando scopri nei tuoi pensieri l'abisso di un insaziabile vuoto e cerchi di risvegliare in ogni cosa che esiste una consonanza con la tua anima.
Il Direttore apprezzò la citazione, anche se la trovò troppo emotiva per i propri parametri. Le informazioni sul nuovo visitatore si rivelavano esatte. Dietro la maschera del cinismo conservava intatta la capacità di meravigliarsi.
"I poeti arrivano quasi sempre vicino al vero. L'amore è l'energia di cui è composto l'universo, e il cuore umano uno dei canali attraverso i quali si riversa nel mondo. Spesso però il cuore è otturato e per riattivarlo è indispensabile che Cupido lo colpisca con una delle sue frecce.[...]

dal capitolo 3   LA PALESTRA
[...]"Tu vivi chiuso in una scatola trasparente, costruita dalle tue paure. Rompila e scoprirai di essere molto più di ciò che credi.[...]Mai fidarti delle apparenze, Tomàs. Il mondo che si trova al di là del vetro potrebbe arrivarti deformato. Le parole della scatola le ha partorite la tua mente e il loro nome comincia sempre per NON. NON posso. NON ce la farò mai. NON dipende da me, la più estesa di tutte. Ma se guardi in alto, troverai la quarta, che si chiama NON ci credere."
"Voglio uscire da qui!"
"Allora fallo. Le pareti del NON sembrano infrangibili, eppure basta che tu decida di oltrepassarle perchè si sbriciolino. Non hai altri limiti di quelli che ti sei posto da solo."[...]
[...]Provò l'impulso irresistibile di rompere il vetro e scomparire dentro lo stomaco di quella creatura primordiale, che per qualche ragione misteriosa non gli incuteva paura.
Diede una testata e la parete andò in frantumi, mentre la balena bianca scompariva in un gorgo di bollicine.
Si ritrovò disteso sulle mattonelle di una sala in penombra. Nell'angolo più lontano un pesciolino rosso sbatteva la coda contro i bordi di un acquario.
"La libertà può far male a chi esce troppo in fretta dalla scatola. Per diventare libero fuori, dovrai prima imparare a esserlo dentro."

da L'ultima riga delle favole
Massimo Gramellini
romanzo

2010, 258 p
Editore Longanesi (collana La Gaja scienza)

mercoledì 29 febbraio 2012

La vita sospesa

Immagini il lettore di essere posto, in virtù e per opera di quelle droghe che la chimica quotidianamente sforna, in stato di vita sospesa, ossia, di morte rinviata. Sarebbe vivo, ma immobile. Tutte le funzioni del corpo ridotte a zero, ogni bisogno abolito. Nè fame, nè sete, nè freddo, nè caldo. Nulla.
Per tutto il tempo di durata della droga, sarebbe come se al lettore fosse stata concessa l'eternità. Finchè non sarà restituito alla vita, è un essere eterno. Sembra un paradosso, ma non lo è. Le droghe hanno di questi effetti, anche quando non vanno oltre i domestici e benigni (o maligni) vizi che sono l'alcol, il tabacco, il gioco, a cui aggiungo un ecc.., dove possono entrare tutte le sue predilezioni inconfessate.
Abbiamo dunque il lettore in stato di vita sospesa. Lo hanno dotato di ogni conforto, il che, del resto, gli è indifferente perchè non avvertirà nè crampi nè nausee. Iniettandogli la droga, lo hanno liberato da un'infinità di piccoli e grandi problemi che gli rendevano la vita un inferno. Lo hanno ritirato dal mondo, pur lasciandovelo. Nessuno lo piange, perchè è vivo. Non c'è nulla che lo affligga. Nulla. Eccetto il pensiero.
Qui la chimica ha fallito. Il lettore continua a pensare.
All'inizio può succedergli, se è ottimista, di trovare piacevole quel che gli è capitato. Gli sembrerà perfino una gran fortuna. Non ha inquietudini e gli è stato concesso il privilegio di assaporare la consapevolezza di non averne. Dal fondo del suo silenzio sorride beato (o pensa di sorridere) e si dispone a godersi la situazione. E se il lettore è intelligente (ogni lettore è, per definizione, intelligente), scopre di avere un'eccellente opportunità di raggiungere, attraverso il puro pensiero, chissà quali altezze o illuminazioni. Si dice anche che il digiuno risvegli il cervello e gli metta le ali - sempre che, naturalmente, non si prolunghi fin dove le ali ( che sono macchine per volare) ormai non reggono più il volo.
Perchè questo è il punto. A un certo momento ( più presto o più tardi, dipende dalla debolezza o dall'intensità del legame alla sua vita anteriore) il lettore scopre che gli duole il pensiero. Ha risolto tutto, sa tutto, conosce le finalità ultime, ha in testa la spiegazione di ogni dubbio, le risposte a ogni domanda. Dovrebbe aver raggiunto la pace. Ma il pensiero gli duole. E l'angoscia, di cui credeva essersi liberato per sempre, si installa nel suo corpo tranquillo, sereno, intatto. D'improvviso, il pensiero vuole avere mani e piedi, vuole amare e odiare, vuole soffrire e far soffrire (unicamente perchè non è possibile vivere senza far soffrire), vuole recuperare il corpo e le sue miserie, vuole i piaceri fugaci, i lunghi dolori, prima insopportabili e ora desiderati, vuole uscire insomma dalla vita sospesa, e forse eterna, e sacrificare un giorno ogni ventiquattro ore, pur sapendo ciò che perde in ciascun minuto di quel giorno.
Se è nelle mani del lettore (o nella forza del suo pensiero) obbligare la mano che gli ha rinviato la morte, sappiamo già entrambi che il suo corpo immobile, e in superficie tranquillizzato, preferisce che con il ritorno alla vita gli portino la morte, anche se prossima. Perchè, fin quando che il corpo sarà vivo e vigile, in convulsione, ardendo come una torcia che bruci alle due estremità, neppure la certezza della morte riuscirà a ridurre o a offuscare la più piccola gioia che vivamente fiorisca dal suo gesto.
Lo immagini il lettore. Non può, non è vero? Ha provato la vita, ci ha preso gusto, e ora vuol veder nascere il sole tutti i giorni. Mi dia la sua mano lettore. Si sieda qui, accanto a me, e ascolti la storia semplice del cuore degli uomini.
da Di questo mondo e degli altri di José Saramago

mercoledì 22 febbraio 2012

Vendono gli dèi quello che danno

La cosa migliore di questa cronaca è il titolo, che del resto, come tutti sanno, non è mio. Appartiene a Fernando Pessoa. Nel caso vi fosse ancora qualcuno che non sa chi è Fernando Pessoa, dirò che quest'uomo fu un poeta che ne sapeva molto di queste faccende di dèi e degli affari che loro fanno. Ne sapeva tanto che dovette inventare, dentro di sè, altri personaggi che lo aiutassero a sopportare il peso e il giogo del sapere. E neppure così potè vivere in pace.
Molto di quel che si scrive non sono altro che glosse del già detto. Sicchè anche questa cronaca è una glossa, scritta in tono minore, di un verso che non ne ha bisogno. Ma le circostanze possono più della volontà, e stavolta non ho volontà sufficiente per resistere all'ossessione di questo verso: "Vendono gli dèi quello che danno". E affinchè la cronaca non sia del tutto gratuita, mi figuro un lettore ingenuo, di quelli che non vanno oltre il senso letterale del testo e che, dunque, non riescono a capire come e perchè si vende una cosa data. Del resto, se mettiamo da parte queste alte cortesie poetiche, perfino in una raccolta di proverbi da quattro soldi troviamo l'equivalente. Dice il popolo (o diceva) che "quando l'elemosina è generosa, il povero diffida".
Solo che qui il popolo e il poeta discordano. Perchè il poeta, alla fine, non diffida, riceve dalle mani degli dèi quel che gli dèi gli danno e se ne va per il mondo come un trionfatore, mostrando a tutti i benevoli doni di cui l'hanno colmato.
Finchè arriva il giorno che ne esigono il pagamento, e siccome in quest'affare non si impegnano soldi, nè gli dèi accettano pagamenti in denaro, il poeta paga con l'anima, l'unica ricchezza che ha e l'unica che gli dèi accettano come moneta adeguata, proprio per questo hanno messo in piedi l'affare. Allora il poeta (non deve esserlo necessariamente: basta che si tratti di un uomo che gli dèi hanno scelto, la cosa riguarda loro) lascia cadere le braccia, scopre l'inganno e mormora: "Vendono gli dèi quello che danno".
Che cosa vendono gli dèi, dando? 
Tutto quanto esalta l'uomo, tutto quanto lo innalza. Vendono l'intelligenza acuta, vendono la sensibilità esacerbata, vendono la lucidità implacabile, vendono l'amore appassionato. E tutto ciò, che è di fatto cammino di perfezione (di gloria nel senso più alto del termine), diventa d'improvviso l'inferno in terra. Gli dèi circondano di mura la vittima prescelta e la lasciano sola in quell'arena sacrificale. E' la solitudine, è il più grande spettacolo del mondo. Siedono gli dèi sulle gradinate e se la spassano. Non entrano leoni nel circo - magari entrassero. Non ci sono combattimenti di gladiatori - magari ce ne fossero. Gli dèi sono intenditori e sanno che tali banalità nulla aggiungerebbero al piatto forte del menù: la lotta dell'uomo per conservare la propria anima.
Come finisce lo spettacolo? Sempre allo stesso modo. L'anima è passata di mano in mano, girata e rigirata, gli dèi si sono indicati l'un l'altro le ferite sanguinanti, le vecchie cicatrici. Intanto al centro dell'arena l'uomo è un gomitolo informe. Di nuovo sazi, gli dèi, con un gesto sdegnoso gli restituiscono l'anima ed escono dal circo. Alla ricerca di un'altra vittima.
Laboriosamente, con difficoltà, l'uomo reintegra in sè quel cencio che gli è stato reso. E' ciò che ha di più prezioso. Ora che è nudo, sa di non avere altra ricchezza. Abbatte, come può, il muro con cui l'hanno circondato ed esce in campo aperto. Gli dèi si allontanano, conversando e ridendo. In fondo non hanno colpa: sono fatti così.
L'uomo si raddrizza e cerca di respirare. Fa i primi passi. E come chi si lamenta con se stesso, va dicendo: "Vendono gli dèi quello che danno". Auguriamoci che non lo dimentichi.
Ma sarà uomo se non lo dimenticherà?

da Di questo mondo e degli altri di José Saramago

lunedì 20 febbraio 2012

La bambina e l'altalena

Accompagnarono la bambina all'altalena e la lasciarono sola. Non era uno di quei comuni giochi da giardino, dalla solida armatura di ferro e dalla breve oscillazione pendolare. Aveva due corde altissime che si perdevano nelle nuvole e su di esse si avviluppavano rampicanti fioriti. C'erano sempre fiori che si aprivano e altri che appassivano, sicchè le corde sembravano vivere. Il sedile era una tavola d'oro e poichè era alto vi si saliva per quaranta gradini di spuma. Intorno c'era molto silenzio e un cerchio ininterrotto di uccelli bianchi.
La bambina cominciò a salire la scala, gradino dopo gradino, e quando arrivò all'ultimo e afferrò le corde, vi fu una grande vibrazione musicale. Si sedette sulla tavola d'oro, e nel medesimo istante i gradini scomparvero in grandi fiocchi che un vento spinse lontano, mentre gli uccelli scendevano a terra trasformandosi in parole di commiato. La bambina si guardò attorno: l'orizzonte era, come al solito, circolare, e a distanza si vedevano vaghe città che crescevano lentamente e a volte scomparivano: perchè il tempo, lassù sull'altalena, aveva un'altra dimensione e i secoli duravano minuti. E' un grande mistero inspiegabile.
Le altalene sono fatte per dondolare. Piano piano la bambina cominciò a oscillare, un po' stordita a causa dell'altezza. Era sospesa tra cielo e terra, appena con una tavola d'oro e due corde che nessuno sapeva dove si agganciassero. Lentamente, l'arco si fece più grande, e la bambina contribuiva con quei movimenti che tutti i bambini apprendono, o già sanno, quando salgono su un'altalena. Ora la vertigine dell'altezza era scomparsa, sostituita dalla confusa sensazione di paura e di vittoria che accompagna il corpo proiettato in aria. Quando la bambina era lanciata in alto, vedeva solo il cielo, profondo e azzurro: gridava di allegria e di stupore, anche di paura. Poi, arrivata alla fine della spinta, cadeva dall'alto, descriveva una lunga curva, ed era la terra ad apparire ai suoi occhi, verde e gialla, e nera, e azzurra, perchè da lassù si vedeva molto bene il mare. E in quell'andare e venire la tavola d'oro sfavillava, e i capelli della bambina, sciolti e fulvi, erano come una bandiera o una fiaccola. E la bambina rideva perchè erano suoi il cielo e la terra, ora l'uno, ora l'altra, e perchè era seduta su un'altalena con le corde fiorite, sebbene, come si è detto, alcuni fiori appassissero e si stancassero: cadevano in spirale come se scendessero una lunga scala verso le profondità del suolo. E ogni volta ne cadevano di più, tanto che alla fine le corde restarono nude e lisce. Al tempo stesso, il movimento dell'altalena andò facendosi più breve, finchè le corde divennero due colonne rigide, verticali, definitivamente immobili. La bambina tentò ancora di muoverle, fece tutti i gesti necessari: impossibile.
Una densa nebbia cominciò a salire dal suolo. Dietro di essa, si nascosero le città, e i campi, e il mare. Non c'era più cielo azzurro, tutto era una spessa  e umida nuvola attraversata da mormorii e antiche voci. La bambina tremava di freddo. Non aveva paura, solo freddo. Tese i piedi in cerca dei gradini, e non c'erano gradini. Allora si lasciò scivolare dalla sua tavola d'oro e cadde. Cadde lentamente, come nei sogni, un po' triste e stanca.
Quando arrivò a terra, rimase raggomitolata come un animaletto o il guscio di un frutto. La nebbia cominciò piano piano a dissiparsi, rotolando in volute sfrangiate, attraversate da raggi di sole. E d'improvviso scomparve. La bambina guardò in su. L'altalena era lì, molto più in alto di prima, con la sua tavola d'oro e le corde fiorite. Ma non c'erano scalini.
Allora la bambina si sedette e attese. Accanto a lei una rosa si apriva con la pazienza del tempo ritrovato. La bambina accostò il viso al fiore terrestre e così restò, aspettando che venissero a cercarla: perchè era bambina e aveva nostalgia di un'altra mano nella sua.
da Di questo mondo e degli altri
José Saramago

mercoledì 1 febbraio 2012

Di questo mondo e degli altri

Le parole

“Le parole sono buone. Le parole sono cattive. Le parole offendono. Le parole chiedono scusa. Le parole bruciano. Le parole accarezzano. Le parole sono date, scambiate, offerte, vendute e inventate. Le parole sono assenti. Alcune parole ci succhiano, non ci mollano; sono come zecche: si annidano nei libri, nei giornali, nelle carte e nei cartelloni. Le parole consigliano, suggeriscono, insinuano, ordinano, impongono, segregano, eliminano. Sono melliflue o aspre. Il mondo gira sulle parole lubrificate con l’olio della pazienza. I cervelli sono pieni di parole che vivono in santa pace con le loro contrarie e nemiche. Per questo le persone fanno il contrario di quel che pensano, credendo di pensare quel che fanno. Ci sono molte parole. E ci sono i discorsi, che sono parole accostate le une alle altre, in equilibrio instabile grazie a una sintassi precaria, fino alla conclusione del “Dissi” o “Ho detto”. Con i discorsi si commemora, si inaugura, si aprono e chiudono riunioni, si lanciano cortine fumogene o si dispongono tende di velluto. Sono brindisi, orazioni, conferenze, dissertazioni. Attraverso i discorsi si trasmettono lodi, ringraziamenti, programmi e fantasie. E poi le parole dei discorsi appaiono delineati su dei fogli, dipinte con l’inchiostro tipografico e per questa via entrano nell’immortalità del Verbo. Accanto a Socrate, il presidente dell’assemblea affigge il discorso che ha aperto il rubinetto della fontana. E le parole scorrono, fluide come il “prezioso liquido”. Scorrono interminabili, allagano il pavimento, salgono le ginocchia, arrivano alla vita, alle spalle, al collo. E’ il diluvio universale, un coro stonato che sgorga a milioni di bocche. La terra prosegue il suo cammino avvolta in un clamore di pazzi che gridano, che urlano, avvolta anche in un mormorio docile, sereno e conciliatore. C’è di tutto nel coro: tenori e tenori leggeri, bassi, soprani dal do di petto facile, baritoni trasbordanti, mezzocontralti. Negli intervalli si ode il suggeritore. E tutto ciò stordisce le stelle e perturba le comunicazioni, come le tempeste solari.
Perchè le parole hanno cessato di comunicare. Ogni parola è detta perchè non se ne oda un altra. La parola non risponde nè domanda: accumula. La parola è l’erba fresca e verde che copre la superficie dello stagno. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non mostra. La parola dissimula.
Per questo urge mondare le parole perchè la semina si muti in raccolto. Perchè le parole siano strumento di morte o di salvezza. Perchè la parola valga solo ciò che vale il silenzio dell’atto. C’è anche il silenzio. Il silenzio per definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la tacita melodia sotto la luce solare. Cadono su di esso le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà il pane”

Da “Di questo mondo e degli altri” di Josè Saramago

LA CAVERNA

...il soffio, il venticello, l'arietta, la brezza, lo zefiro.

"Si narra che anticamente ci fu un dio che decise di modellare un uomo con l'argilla della terra che prima aveva creato, e subito dopo, perchè avesse respiro e vita, gli soffiò nelle narici. Alcuni spiriti contumaci e negativi insegnano a denti stretti, quando non osano proclamarlo ai quattro venti, che, dopo quell'atto creativo supremo, il famoso dio non tornò mai più a dedicarsi alle arti della ceramica, una maniera contorta di denunciarlo per avere, semplicemente, smesso di lavorare. La questione, per la trascendenza di cui si riveste, è troppo seria per essere trattata semplicisticamente, richiede ponderazione, molta imparzialità, molto spirito obiettivo. E' un fatto storico che il lavoro di modellatura, a partire da quel memorabile giorno, non è più stato un attributo esclusivo del creatore per passare alla competenza incipiente delle creature, le quali, inutile dirlo, non sono attrezzate di sufficiente soffio ventilatore. Il risultato è che si è demandata al fuoco la responsabilità di tutte le operazioni sussidiarie capaci di dare, tanto per il colore come per la brillantezza, e addirittura per il suono, una ragionevole somiglianza di cosa viva a quanto uscisse dai forni. Sarebbe un giudicare dalle apparenze. Il fuoco fa molto, e questo nessuno lo nega, ma non può fare tutto, ha serie limitazioni, e persino qualche grave difetto, come sarebbe per esempio, l'insaziabile bulimia di cui soffre e che lo porta a divorare e ridurre in cenere tutto quanto si trova davanti. Tornando, però, al tema che ci occupa, alla fornace e al suo funzionamento, sappiamo tutti che la creta umida infilata nel forno è creta crepata in men che non si dica. Una prima e irrevocabile condizione la stabilisce il fuoco, se vogliamo che faccia ciò che da lui ci aspettiamo, ed è che la creta entri nel forno essicata, e ben essicata. Ed è qui che umilmente torniamo al soffio nelle narici, è qui che dovremo riconoscere fino a qual punto eravamo stati ingiusti e imprudenti quando abbiamo delineato e fatta nostra l'empia idea che il tale dio avrebbe voltato le spalle, indifferente, alla sua stessa opera. Si, è vero, dopo di ciò nessuno lo ha più rivisto, ma ci ha lasciato quello che forse era il meglio di se stesso, il soffio, il venticello, l'arietta, la brezza, lo zefiro, quelli che già stanno entrando dolcemente nelle narici delle sei statuine di creta che Cipriano Algor e la figlia hanno appena collocato, con ogni cura, sopra una delle assi a essicare. Uno scrittore, insomma, non solo vasaio, il suddetto dio sa anche scrivere bene su righe torte, non essendo presente per soffiare personalmente, ha fatto fare il lavoro per suo conto, e tutto affinchè la vita ancora fragile di queste terrecotte non debba finire per estinguersi domani nel cieco e brutale abbraccio del fuoco. Parlare di domani, però è solo un modo di dire, perchè se è pure vero che, un soffio solo è stato sufficiente all'inaugurazione perchè l'argilla dell'uomo acquistasse respiro e vita, dovranno essere tanti i soffi necessari perchè dai buffoni, dai pagliacci, dagli assiri con la barba, dai mandarini, dagli eschimesi e dalle infermiere, da questi che sono qui e da quelli che in file serrate si allineeranno su queste tavole, evapori, a poco a poco, l'acqua senza la quale non avrebbero potuto essere ciò che sono, e possano entrare sicuri nel forno per trasformarsi in quello che dovranno essere."
passaggio cruciale di quel sublime libro che è "La caverna" di Josè Saramago  
 
Titolo originale: A caverna
Anno: 2000
Giulio Einaudi editore s.p.a Torino

giovedì 12 gennaio 2012

Il banchiere anarchico

[...]"Pensi allora che vuol dire...Un gruppo piccolo, di gente sincera (glielo garantisco era sincera!), formatosi espressamente per lavorare alla causa della libertà, aveva ottenuto, in qualche mese, solo una cosa di concreto e positivo - creare tirannia al proprio interno. E guardi di che specie...Non la tirannia derivante dall'azione delle finzioni sociali, la quale, per infame che fosse, in qualche misura poteva anche venire perdonata, sebbene a noi meno che ad altri, considerato che a quelle finzioni avremmo dovuto opporci, ma, insomma, vivendo in una società che su certe finzioni si reggeva, se non riuscivamo a sottrarci alla loro azione non era del tutto colpa nostra. Il punto però era un altro. I ragazzi che comandavano sui loro compagni o lo portavano dove volevano, non lo facevano in forza del denaro o della posizione sociale, o di un'eventuale autorità fittizia; lo facevano in risposta a un richiamo diverso da quello delle finzioni sociali. Intendo dire che questa tirannia era, relativamente a simili finzioni, una tirannia nuova. Esercitata ai danni di gente già essenzialmente oppressa dalle finzioni sociali. Per di più, era una tirannia esercitata le une sulle altre da persone il cui intento sincero era distruggere la tirannia e creare libertà.
"Immagini adesso un gruppo molto più grande e più influente, che si occupi di questioni importanti e prenda decisioni cruciali. Supponga che gli sforzi di questo gruppo siano tesi, com'era per noi, a creare una società libera. E ora mi dica se attraverso questo carico di tirannie incrociate intrevede una qualsiasi società libera o a un'umanità degna del nome..."[...]

[...]Eccoci di fronte a una tirannia nuova, una tirannia che non deriva dalle finzioni sociali. Ma allora da cosa deriva? Dalle qualità naturali? Se è così addio società libera! Se una società dove operano soltanto le qualità naturali - le qualità con cui un uomo nasce, che deve esclusivamente alla Natura e sulle quali non abbiamo alcun potere - se una società in cui operano solo queste qualità si riduce a un mucchio di tirannie, chi alzerà il mignolo per contribuire al suo avvento? Tirannia per tirannia, resti quella che c'è già, cui perlomeno siamo abituati e che perciò fatalmente avvertiamo meno di quanto avvertiremmo una tirannia nuova, dotata, per di più, dell'orrida proprietà che hanno le cose tiranniche quando rimettono direttamente alla Natura, e cioè che alla Natura non possiamo ribellarci, come non ci si può ribellare alla morte, o all'essere bassi quando avremmo preferito nascere alti.[...]

[...] "Nelle circostanze attuali non è possibile che un gruppo di uomini, per quanto ben intenzionati, per quanto si sforzino di combattere le finzioni sociali e di lavorare per la libertà, lavorino assieme senza creare fra loro una tirannia nuova, supplementare a quella delle finzioni sociali, senza distruggere nei fatti ciò che si prefiggono in teoria, senza involontariamente ostacolare quel fine che intendono promuovere. E allora che si fa? E' molto semplice....Si lavora tutti allo stesso scopo, ma separati".

dal racconto "Il banchiere anarchico" di Fernando Pessoa
In "Contemporanea" Lisboa, n° I Maggio 1922